Al momento stai visualizzando I bambini possono essere costretti a vedere i nonni?

Il diritto dei nonni a vedere i nipotini non può prevalere sull’interesse degli stessi minori che manifestano contrarietà agli incontri e che non possono essere costretti, da provvedimenti del giudice, a frequentare gli ‘ascendenti’ solo in base alla considerazione che – da questa relazione – non ne trarrebbero comunque “un pregiudizio”.

Non ci può essere, dunque, alcuna “imposizione ‘manu militari’ di una relazione sgradita e non voluta”, soprattutto se si tratta di ragazzini capaci “di discernimento” o che abbiano compiuto 12 anni.

Con questa motivazione, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso dei genitori di due bimbi costretti a vedere i nonni.

Nel caso di specie, in una famiglia con rapporti molto difficili tra i genitori di due bimbi e i nonni e lo zio paterni questi ultimi si erano rivolti alla magistratura per incontrare i nipoti.

La Suprema Corte ribadisce che “il compito del giudice non è quello di individuare quale dei parenti debba imporsi sull’altro nella situazione di conflitto, ma di stabilire, rivolgendo la propria attenzione al superiore interesse del minore, se i rapporti non armonici (o addirittura conflittuali) fra gli adulti facenti parte della comunità parentale si possano comporre e come ciò debba avvenire”.

Gli stessi servizi sociali – hanno fatto presente i genitori nel reclamo agli ‘ermellini’- avevano constatato “l’impossibilità di provvedere alla mediazione perchè il conflitto risultava irrisolvibile”. In primo grado, il Tribunale di Milano aveva disposto gli incontri con il clan paterno alla presenza di un educatore e aveva stabilito che i rapporti potessero procedere “in forma libera” quando la nonna “avesse provato di essersi fatta assistere da uno psichiatra dando continuità alle cure”.

La Corte di Appello di Milano aveva ritenuto “che non fosse utile” l’obbligo per la nonna “di rivolgersi allo psichiatra” dal momento che lei non aveva “coscienza della propria condizione di disagio psichico”. Piuttosto, secondo i magistrati milanesi, “occorreva far maturare nei genitori la consapevolezza del danno psichico cui espongono i loro figli, costretti a vivere privati degli affetti che potrebbero arricchirli, in un clima indotto di paura e di rancore”. In conclusione, la Corte di appello invitava tutti gli adulti a seguire “un percorso allargato di terapia familiare” e incaricava i servizi sociali “a vigilare sulla situazione dei due bambini e a regolamentare i loro incontri con i nonni e lo zio paterni”. Insomma dato che “non sussisteva un reale pregiudizio per i bambini nel passare del tempo con i nonni e lo zio”, che erano stati descritti dai consulenti come “sinceramente legati ai nipoti”, occorreva che fosse riconosciuto il diritto del clan a mantenere i rapporti con i due bambini.

Ma la Cassazione non ha assolutamente condiviso questo modo di vedere le cose e ha sottolineato che non basta “l’insussistenza di un reale pregiudizio nel passare del tempo con nonni e zio” per imporre la frequentazione, ma occorre semmai verificare se gli ascendenti sono in grado “di prendere fruttuosamente parte attiva alla vita dei nipoti attraverso la costruzione di un rapporto relazionale e affettivo e in maniera tale da favorire il sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità”.

In nessun modo si può ricorrere alla “costrizione” ma si può provare a utilizzare “l’arsenale” di strumenti ‘soft’ di modulazione delle relazioni che sappiano creare spontaneità (e dunque significatività) di relazione con i minori piuttosto che imporre rapporti non desiderati”. Gli ‘ermellini’ infine non sono affatto d’accordo nel “coinvolgimento della nonna paterna nel progetto educativo e formativo dei nipoti nonostante la sua mancata disponibilità a sottoporsi alle indicazioni cliniche” suggerite dalla Ctu e dato il “mantenimento di un atteggiamento aggressivo verso i genitori dei bambini”.

Ora la Corte di Milano deve tornare indietro e rimettere i minori al centro della sua attenzione.

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